Dio Damon Knight Damon Knight, sulla scena della sf da molti decenni ormai, si è guadagnato una solida fama di scrittore (ricordiamo il celebre Il lastrico dell’inferno), come curatore di antologie e scopritore di nuovi talenti, e anche come saggista. Qui ci presenta, con una esposizione fredda e lineare che ben si adatta al tema, un tempo in cui uomini e donne possono vivere per sempre e sono spinti solo da una furiosa e vuota ricerca di divertimenti effimeri. Damon Knight Dio I È mezzogiorno. In alto il cielo scintilla di calore come un grande catino argenteo, e il chiarore si riverbera sulla sabbia gialla; in lontananza, la superficie dell’oceano è una danza di luce infuocata. Emergendo dal sottosuolo, Dio il Progettista ammicca per un istante nel biancore abbagliante; sente il calore come una cappa soffocante e la barba, iridescente nel sole, tende ad incresparsi. A poca distanza si trovano cinque persone, uomini e donne, i loro corpi rosei che spiccano sulla sabbia. Il resto del paesaggio marino è completamente spoglio; la striscia di sabbia sembra estendersi per miglia e miglia, deserta e bruciante. Non c’è neppure un gabbiano nell’aria. Tre di quelle figure sono uomini; stanno correndo e si lanciano un pallone da spiaggia, con grida lontane. Le due donne sono semisdraiate e il loro sguardo è rivolto agli uomini. Tutti e cinque hanno una muscolatura superba, con ampi toraci arcuati; la pelle è liscia, gli occhi scintillanti. Dio guarda le proprie braccia: c’è forse una traccia più scura? È apparsa qualche ruga? Si libera dell’unico indumento e si avvia verso il gruppo. Per un istante, la carezza della sabbia sotto i suoi piedi è dolorosa; poi la pelle si adatta e non sente più nulla. Con scarso interesse, i cinque si voltano mentre lui si avvicina. Sono tutti giocatori, non studenti, e due di essi gli sono sconosciuti. Si sente a disagio e vorrebbe non essere mai venuto. Non va bene che giocatori e studenti si incontrino casualmente; ciascuno dei due gruppi è fin troppo consapevole del benevolo disprezzo dell’altro. Dio cerca di immaginarsi come un giocatore che si sforzi di essere gentile con uno studente e, come sempre, fallisce nell’intento. La distanza che li separa è incolmabile. Il mondo ha bisogno di entrambi, studenti per ricordare e creare, giocatori per consumare e godere; ma le classi non dovrebbero confondersi. Anche senza abiti, questi sono giocatori; i grandi occhi innocenti che brillano di entusiasmo o tradiscono un improvviso fastidio; le bocche irrequiete che possono essere di volta in volta gaie o imbronciate. Ora egli fissa deliberatamente la donna bionda, Claire, e sul suo viso vede gli stessi inconfondibili segni. Ma contro ogni logica e consuetudine, la dolce curva delle sue labbra è di superba bellezza; il profilo della testa dai capelli biondo cenere che sfuma nella linea possente del collo toglie il respiro. È una cosa illogica, quasi inaudita, forse anormale: ma lui la ama. I suoi occhi grigi lo fissano con la stessa intensità di due agate marine, e il sorriso accattivante che affiora per un attimo sulle sue labbra lo riscalda e lo lusinga. — Sono così contenta di vederti. — Gli prende la mano. — Naturalmente conosci Katha e Piet. Questo è Tanno, e quello laggiù è Mark. Siediti a parlare con me. Non riesco a muovermi, fa così caldo. I lanciatori di palla riprendono allegramente a giocare. La brunetta, Katha, comincia immediatamente a parlare dei cori di Bethany: Dio li ha sentiti? No? Ma deve assolutamente andarci: le voci sono supende, il direttore del coro è bravissimo; erano secoli che non si sentiva nulla disimile. La parola «secoli» viene pronunciata con indifferenza. Quanti anni ha Katha? Ottocento, mille? Di recente, in un giornale di trecento anni fa, Dio si è sorpreso di trovare un riferimento a Katha. Ci sono così tante persone; è impossibile ricordare. È per questo che gli studenti tengono degli annuari, e i giocatori no. Forse aveva già incontrato Claire, e poi se n’era dimenticato… — No — risponde educatamente. — Sono stato piuttosto occupato con un progetto. — Dio è un Progettista Architettonico — dice Claire, prendendosi gioco di lui con quel termine altisonante; eppure, nella sua voce risuona di una curiosa sfumatura di orgoglio a rovescio. — Te l’ho detto, Kat, lui è studente tra gli studenti. Ricostruisce questo settore ogni anno. — Oh — dice Katha spalancando gli occhi, — davvero affascinante. — E un istante dopo, senza pause, sta già parlando del nuovo circo aereo di Littlam… Molto plebeo, ma divertentissimo. I pagliacci aerei! Gli acrobati! Quei deliziosi animali! Il volto levigato di Claire, aureolato dal sole, è vicino al suo, e il riverbero della sabbia io illumina dal basso. Le palpebre socchiuse sono morbide e delicate, appena illividite dal sole: le pupille sono contratte e nelle ampie iridi grigie si intrecciano complicati disegni. Un frammento affiora nella sua mente; qualcosa che ha letto a proposito della struttura dell’iride: muscoli che si dilatano a raggiera connessi ad un organo circolare che si contrae, con tracce di melanina. Per qualche ragione quel pensiero è disgustoso e cerca di scacciarlo. Si sente un po’ scombussolato: ha lavorato troppo. — Stanco? — chiede lei con voce dolce. Lui si rilassa un po’. La brunetta, Katha, continua a parlare; è una di quelle persone che non smettono mai di parlare nonostante gli altri non la stiano a sentire. Lui risponde. — Questo è il periodo in cui siamo più occupati. Tutti i progetti vengono sottoposti al controllo finale prima di essere immessi nell’integratore principale. È l’ultima possibilità che abbiamo per scoprire eventuali errori. — Mi spiace, Dio — dice lei con voce contrita. — So che non avrei dovuto chiedertelo. — Solleva le sopracciglia; lo guarda ansiosa. — Però dovresti riposare. — Sì — dice Dio. Il palmo morbido della sua mano gli accarezza la nuca — Riposa, allora. Riposa. — Ah — sospira Dio stancamente, lasciando scivolare la testa fra le sue braccia. Sotto la sabbia su cui è sdraiato, si trovano diciassette livelli, tre dei quali sono di sua diretta competenza in quel momento, su di un settore che va da Alban a Detroy. Da due settimane lavora quasi senza aver chiuso occhio. Si parla di iniziare un diciottesimo livello nella prossima stagione; questo significa sollevare ancora la superficie, e tutti i piani di forza dovranno essere modificati. Dietro i suoi occhi chiusi, sfilano i dettagli, a migliaia, schemi architettonici, cianografie, specifiche, codici. — Tesoro — gli sussurra la sua voce carezzevole all’orecchio, — sai che comunque sono felice che tu sia venuto, anche se non volevi. Perché tu non volevi venire. Lo capisci questo? Lui la scruta socchiudendo un occhio. — Una sensazione di potere? — suggerisce ironico. — No. Piuttosto un modo per rassicurarsi. Lo sai che ero gelosa del tuo lavoro?… E lo sono ancora, molto. Mi sono detta; se abbandonasse il suo progetto, oggi, ora… Lui rotola su di un fianco e alza lo sguardo, lanciandole un sorriso obliquo. — Eppure tu non distingui un giorno dall’altro. Il sorriso di lei è rapido e timido. — Lo so, è terribile da parte mia: ma tu ci riesci. Mentre si guardano in silenzio, egli è di nuovo conscio della distanza che li separa. Essi hanno bisogno di noi, pensa, per cambiare ogni anno il loro mondo, per mantenerlo nuovo e brillante, per nascondere il passato, ma essi ci odiano, perché sanno che tutto quello che loro dimenticano, noi lo conserviamo e lo ricordiamo. La sua mano trova quella di Claire. Una tristezza irragionevole e profonda lo avvolge: si chiede in silenzio: perché dovrei amarti? Non ha parlato, ma vede il viso di lei contrarsi in un sorriso doloroso e mesto; e le sue dita lo stringono più forte. Sopra di loro, le grida dei giocatori si sono mutate in proteste chiassose. Dio solleva lo sguardo. Piet, l’uomo con la testa lanuginosa, sovrasta ridendo gli altri due. Ridiscende adagio e lancia la palla: la partita continua. Ma un attimo dopo Piet è di nuovo in aria: gli altri gridano con rabbia e Tanno balza verso l’alto per affrontarlo. La palla cade, rimbalza lontano. Le due figure avvinghiate si girano e rotolano a mezz’aria. Alla fine, l’uomo con la testa lanuginosa riesce a trascinare l’altro sulla sabbia. Entrambi si risollevano, ridendo. — Qualcuno deve domare questo selvaggio — dice ansante lo sconfitto. — Io non ci riesco, è troppo sfuggente. Magari tu, Dio? — Sta riposando — protesta Claire, ma gli altri in coro: — Oh, sì! — Solo un salto o due — dice Piet, fregandosi le mani e sfoderando un largo sorriso. — C’è un sacco di tempo prima che salga la marea… a meno che tu non te la senta. Riluttante, Dio si alza. Con una smorfia, Piet si solleva al di sopra della sabbia. Dio lo segue, avvertendo la rigida spinta dei muscoli del torace e della schiena e la curiosa sensazione di pressione lungo la spina dorsale. I due uomini girano in tondo, salendo lentamente. Piet si contorce, mettendosi a testa in giù, e facendo scattare in avanti le braccia per afferrare le gambe di Dio. Dio scivola sopra di lui e, voltandosi, cerca di abbrancarlo. Ma Piet gli sfugge come un’anguilla e lo blocca con una presa al torace. Dio si piega contro quel petto rigido, con tutti i muscoli in tensione; sbilanciati, i due uomini rimangono sospesi per un attimo. Poi, improvvisamente, qualcosa nella forza che tiene Dio sospeso in aria viene a mancare. Insieme, cominciano a cadere, andando a sbattere violentemente sulla sabbia. Si ode un mormorio di sorpresa. Dio si rialza. Piet è in ginocchio accanto a lui, pallido in viso, e con una mano premuta sul braccio. — È slogato? — chiese Mark, chinandosi per tastarlo delicatamente. — Sono venuto giù di peso — dice Piet. — Non mi aspettavo… — indica Dio con il capo. — Questa è nuova. — Be’, sbrighiamoci a sistemarlo o perderai lo spruzzo. — Piet appoggia il braccio dolorante sulle cosce. — Pronto? — Mark appoggia il piede nudo sul braccio, si piega in avanti e preme di scatto e con forza. Piet fa una smorfia e poi sorride: il braccio è a posto. — Siediti e lascia che si saldi — dice l’altro. Si rivolge a Dio: — Cos’è questo? Dio si sta accorgendo di un acuto dolore ad un dito e di un rivolo di sangue scuro. — Si è solo piegata leggermente un’unghia — dice Mark. — Premila, si chiuderà in un secondo. Katha suggerisce un gioco con le parole e dopo un attimo sono tutti seduti in circolo, gridando sillabe a turno. Dio non è molto brillante: non riesce a dimenticare il sangue scuro che sgorga dalla punta del suo dito. Il cielo argenteo sembra distante e opprimente, lui è stanco del calore soffocante, dell’aria irrespirabile e della sabbia rovente sotto il suo corpo. Prova un senso di paura impotente, come se qualcosa di terribile fosse già successo, come se fosse troppo tardi. Qualcuno dice: — È ora — e tutti si alzano in piedi scrollandosi la sabbia di dosso. — Vieni — gli sussurra Claire. — Non sei mai stato sopra lo spruzzo? È divertente. — No. Devo tornare, ti chiamerò più tardi — dice Dio. Lei gli sfiora delicatamente il petto con le dita mentre lui la bacia, poi Dio si allontana. — Arrivederci — grida agli altri. — Arrivederci. — E voltandosi, cammina con passo strascicato sulla sabbia. Gli altri, felici di essersi liberati di lui, si stanno dirigendo verso le rocce sopra il pelo dell’acqua. Uno spruzzo bianco e schiumoso si leva da una fenditura quando il mare irrompe all’interno di una caverna sottostante. L’acqua si ritira, lasciando uno specchio di sabbia umida che si asciuga nello spazio di un attimo. Poco più in là, un enorme maroso si è già riformato, solleva la sua cresta verde e si scaglia in avanti. — Non questa, la prossima — grida Tanno. — Claire — dice Katha avvicinandosi, — è così strano. Hai notato il tuo amico? Quando se n’è andato, il dito gli sanguinava ancora. Lo spruzzo bianco si sollevava in alto, provocando uno scoppio di risa nervose. — Che cosa? — chiede Claire. — Devi esserti sbagliata. Non poteva essere. — Avanti adesso, state tutti vicini! — Eppure — dice Katha, — stava sanguinando. — Nessuno le dà retta, ma lei ci è abituata. In lontananza, l’ondata si gonfia minacciosa e viene in avanti, coronata di bianco; si solleva sempre più veloce, e mentre invade la caverna con un rombo che scuote il terreno, gli Immortali vengono scagliati in alto sul bianco spruzzo, gridando di gioia. Dio è solo nelle sue stanze vuote e passeggia sul pavimento elastico, avvolto nel silenzio. Si ferma, e ad un suo cenno appare uno specchio sulla nuda parete; si sporge per scrutare il proprio volto grigio, e poi fa di nuovo scomparire lo specchio. Tutto intorno a lui incombe l’universo, enorme, inesorabile. La striscia segnatempo sul muro è diventata quasi completamente nera: il giorno è finito. È rimasto solo per tutto il pomeriggio. I circuiti del telefono e della porta sono programmati per respingere le chiamate, anche quella di Claire. Il suo solo istinto è stato quello di nascondersi. Un pezzo di stoffa gialla avvolge il dito ferito. Il sangue l’ha inzuppato, poi si è seccato ed ora è completamente appiccicato alla ferita. Il sangue si è fermato, ma l’unghia non si è ancora riattaccata. Qualcosa non va, in lui: com’è possibile una cosa del genere? Sono giorni che lo sente arrivare, farsi sempre più vicino, invisibile. Ora è qui. Sono passate otto ore, il suo dito non è ancora guarito. Lui ricorda quell’attimo, sospeso in aria, quando gli è venuto a mancare il sostegno. Potrebbe succedere ancora? Allora pianta saldamente i piedi e si concentra, su, ed avverte il familiare irrigidirsi della schiena e del torace. Ma non succede nulla. Incredulo, tenta ancora. Nulla! Il cuore gli martella nel petto; un senso di vertigine e di gelo. Barcolla, quasi cade. Non è possibile che questo stia accadendo a lui… aiuto, deve trovare aiuto. Sotto le sue dita tremanti l’indice telefonico si illumina: trova il nome di Claire, preme il selettore. A quest’ora sarà uscita, ma il registro di settore è in grado di trovarla. Lo schermo resta grigio. Lui aspetta. L’oscurità è un po’ più lontana. Claire lo aiuterà, penserà a qualcosa. Lo schermo si illumina, ma compare solo la faccia neutra e grigia di un autosegretario. — Un momento, prego. Lo schermo tremola: finalmente il viso di Ciaire! — … è una registrazione, Dio. Quando non mi hai chiamato e io non sono riuscita a raggiungerti, ci sono rimasta molto male. So che sei occupato, ma… Be’, Piet mi ha chiesto di andare a Toria a giocare a polo, e ho deciso di accettare. Forse mi fermerò un paio di settimane per il festival dei fiori, o forse andrò a Roma. Mi dispiace, Dio, avevamo cominciato così bene. Forse davvero le classi non devono mescolarsi. Addio. Lo schermo si oscura. Dio è in ginocchio e continua a fissarlo. — Non andartene — dice ansimando. — Non andare. — Il coraggio residuo lo abbandona; lacrime calde, salate, e piene di vergogna sgorgano dai suoi occhi. La stanza è spoglia e luminosa, ma negli angoli si insinua l’oscurità, ripiegandosi verso l’alto, nera come l’ossidiana, pronta a balzare in avanti. II La folla al livello inferiore è un fiume di colori, blu elettrico, rosso scarlatto, giallo opaco, tutti brillanti, nitidi, vivaci. Profumi floreali si diffondono dalle morbide pieghe degli abiti; l’aria è piena di voci allegre e di risa. Di ritorno da cinque mesi passati a girovagare in Africa, Pacifico ed Europa, Claire è piacevolmente smarrita tra i marciapiedi mobili del Settore Venti. Dove una volta c’era la strada principale, ora c’è un labirinto di stradine anguste, piene di vivaci stendardi e dense di effluvi. I veicoli per le escursioni sono eleganti canestri di filigrana d’argento, sospesi con aerea grazia. Lei sale su uno di essi, e si innalza lungo il canyon di finestre descrivendo una lunga curva, oltrepassando terrazzi e balconi, cogliendo qua e là rapide e intime visioni di gente che non rivedrà mai più: qui una donna che dà da mangiare ad un piccolo pappagallo azzurro; là due bambini che la fissano stupiti da un giardino, entrambi con lunghi capelli biondi simili a denti di leone. Quanto tempo è passato dall’ultima volta che ha visto dei bambini! Cerca di immaginarsi che cosa si provi ad essere un bambino ora, in questo mondo immenso pieno di adulti, ma non ci riesce. I ricordi della sua infanzia sono così lontani, vaghi e bizzarri, come figure viste dal lato sbagliato di un binocolo. Ecco un uomo con una rigogliosa barba nera, che tiene una bottiglia in bilico sul naso davanti ad un gruppo di persone che ridono… ecco che cade! Ecco due coppie che si stanno baciando… il suo cuore batte più in fretta; si sente arrossire. Piet era diventato così noioso, dopo un po’; lei ora vuole dimenticarlo. Lo ha già dimenticato con la sua dolce e chiara voce di contralto, intona: — Dio, Dio, Dio… Al livello seguente, scende e prende un robotaxi. Seleziona il nome di Dio; il piccolo autista dagli occhi verdi «cerca» per un attimo, lampeggiando; poi il veicolo compie una giravolta decisa e guadagna velocità. L’edificio è irriconoscibile: le strade bianche sono state adornate di facciate barocche di colore verde e vermiglio. La forma dell’ingresso è familiare, però, e sulle targhette figura il nome di Dio. Lei esita, fissando il pozzo dell’ascensore, vuoto e anonimo. Lui è lì, dietro quel muto blocco di marmo? Dopo un attimo si volta con un’alzata di spalle, e prende la più vicina di una fila di fragili sedie d’argento. Preme il numero tre, la sedia la solleva, portandola a destinazione. Si trova nell’anticamera dell’appartamento di Dio. Le pareti sono rivestite di freddo marmo venato di blu. Da un lato si apre lo spazioso ovale del pozzo dell’ascensore; dall’altro la larga porta ad arco, chiusa. Una scultura ruota lentamente sotto l’alto soffitto. Sale sulla pedana del videocitofono. — Sì — una voce maschile, piacevole ma sconosciuta. Lo schermo non si illumina. Lei si presenta. — Voglio vedere Dio… È in casa? Una pausa curiosa. — Sì, c’è… chi ti manda? — Non mi ha mandato nessuno. — Ha la frustrante sensazione che si tratti di un equivoco, che stiano parlando di due cose differenti. — Chi sei tu? — Non ha importanza. Be’, puoi entrare, anche se non so quando potrai vederlo oggi. — La porta scivola di lato. Stupefatta ed anche un po’ risentita, Claire oltrepassa la soglia. La prima stanza è una fredda caverna grigia: in alto vi sono degli schermi a circuito chiuso che inquadrano le strade del settore. Formano un brillante arabesco lungo le pareti, ma emanano una debole luminosità. La camera successiva è un enorme spazio disordinato, stipato di macchinari sparsi alla rinfusa; Claire arriccia il naso disgustata. Ad una delle estremità intravede due uomini su uno degli apparecchi, con la schiena rivolta verso di lei. Prosegue. La terza stanza è un freddo ambiente di colore verde, con il pavimento ricoperto di mosaici ed una fontana che zampilla al centro. Sui banchi curvi lungo le pareti sono sedute quindici o venti persone che usano apparecchi di servizio, lettori e così via: è molto simile alla sala d’attesa di un guaritore alla moda. Che Dio si sia dato alla psichiatria? Con un’improvvisa sensazione di insicurezza, si sistema in un sedile appartato e si guarda intorno. No, la sua prima impressione era sbagliata, questi non sono clienti in attesa di essere ricevuti da un guaritore, perché, in primo luogo, sono tutti studenti… tutti. Li osserva con maggiore attenzione. Due di essi giocano a scacchi in un angolo appartato; altri due passeggiano a distanza avanti e indietro; cinque o sei sono radunati attorno ad un tavolo su cui sono sparse delle carte: uno di questi parla in gran fretta mentre gli altri lo ascoltano. Claire non riesce ad afferrare le parole da quella distanza. Dall’altro lato della stanza, due uomini ed una donna sono seduti davanti ad un monitor e lo osservano con attenzione, anche se da lontano Claire non può distingure alcuna immagine. L’acqua zampilla nella fontana. Dopo una lunga attesa le porte si aprono ed appare un uomo; si china e parla ad un altro uomo seduto lì vicino. Quest’ultimo si alza e varca la porta interna; l’altro va nella direzione opposta, e scompare alla vista. Nessuno dei due ritorna nella stanza. Claire aspetta, ma non succede più nulla. Nessuno ha annotato il suo nome, l’ha inserita in qualche lista; nessuno sembra prestarle attenzione. Si alza e percorre lentamente la stanza oltrepassando il gruppo attorno al tavolo. Due degli uomini stanno parlando animatamente, interrompendosi a vicenda. Avvicinandosi, coglie qualche parola, ma sono tutte chiacchiere da studenti: — La curva delta mostra chiaramente… un presupposto stocastico… — Si dirige verso i tre che stanno osservando il monitor. A Claire lo schermo non rivela alcuna immagine, ma deboli sprazzi di colore si muovono sulla superficie lucida, e si ode un suono sommesso. Ci sono due posti liberi. Dopo una breve esitazione, prende una sedia e si sporge verso il monitor. Ora lo schermo è illuminato e alle sue orecchie giunge il mormorio di una conversazione. Sta guardando una stanza nella quale troneggia un’enorme lastra di marmo grigio, alta tre volte un uomo. Benché solida all’apparenza, sembra scivolare verso il basso, con un movimento costante ed ipnotico, simile ad una cascata. Sotto questa cortina di pietra siedono due uomini. Uno di essi è un estraneo. L’altro… Si sporge in avanti, scrutando. L’altro è in ombra, lei non distingue i lineamenti. Eppure c’è qualcosa di familiare nel profilo del corpo e della testa… È quasi sicura che si tratti di Dio, ma quando comincia a parlare, lei esita di nuovo. È una voce strana, debole e rauca, diversa da qualunqua altra abbia mai sentito finora; il suono è così strano che lei dimentica di ascoltare le parole. Ora l’altro individuo inizia a parlare: — … queste nozioni. È solo una procedura ordinaria… ancora un’iniezione. — No — dice l’uomo in ombra con furia repressa, e si alza di scatto. Nella stanza c’è una luce tremolante, e l’ombra segue i suoi movimenti. — Mi scusi — le sussurra improvvisamente una voce all’orecchio. L’uomo lì accanto sta fissando Claire con sguardo inquisitorio. — Non credo che lei sia autorizzata ad assistere a questa sessione, vero? Claire tradisce un gesto di impazienza e torna a rivolgere la propria attenzione allo schermo, affascinata. Nella stanza ora entrambi gli uomini sono in piedi; l’uomo nell’ombra sta parlando con voce rauca, mentre l’altro si avvicina per prendergli il braccio. — La prego — insiste l’uomo al suo fianco, — è autorizzata ad assistere alla sessione? La voce dell’uomo avvolta nell’oscurità si è alzata di tono, diventando un urlo isterico, rauco e sottile, dissimile da qualunque grido umano. Sullo schermo, questi si volta di scatto come se volesse tornare di corsa nella stanza. — Prendetelo! — grida l’altro lanciandosi dietro la figura che corre. L’uomo in ombra arretra di scatto, evitando l’altro che cerca di afferrarlo, ed entrambi escono dall’inquadratura. Poi sullo schermo appaiono altri due uomini ed anch’essi scompaiono di lato; lo schermo rimane vuoto: c’è solo la lastra che continua a scivolare dolcemente e costantemente nel pavimento. I tre che erano seduti accanto a Claire ora si sono alzati in piedi. In fondo alla stanza, tutti si voltano a guardare. — Che cosa c’è? — chiede qualcuno. Uno degli uomini grida in risposta: — Gli è venuto una specie di attacco! — Rivolto alla donna, aggiunge a voce bassa: — È il disagio, penso… Claire osserva senza capire, quando un urlo improvviso dall’altra parte della stanza la costringe a voltarsi. Le porte si sono spalancale e sulla soglia un uomo urlante lotta inutilmente con altri due. Lo afferrano per le braccia e lui non può muoversi, ma quell’orribile voce rauca continua ad urlare, ad urlare… Non ci sono più ombre: lei è in grado di vedere il viso. — Dio! — grida balzando in piedi. Attraverso il frastuono da lui stesso provocato, sente la sua voce e volta la testa. Sul suo viso gonfio e concitato, gli occhi si accendono di un’espressione incredula. Poi, con un gesto violento, lui si volta dall’altra parte. Riesce a liberare un braccio e con uno scatto si copre il volto. Si allontana in fretta, e gli altri lo seguono. Le porte si chiudono. La stanza è piena di figure immobili e di un mormorio confuso. Claire resta dov’è, paralizzata, finché una figura snella si stacca dalle altre. Quest’altro viso sembra sospeso in aria, oscurando quello della figura… rosso e contorto, con la bocca spalancata. L’uomo le afferra il gomito e la spinge verso la porta esterna. — Che cosa sei tu per Dio? Lo conoscevi prima? — Prima di cosa? — chiede debolmente. Ora stanno attraversando la stanza delle macchine, vuota e piena di echi. — Uhm. Mi ricordo di te, adesso… ti ho fatto entrare, vero? Ti dispiace essere venuta? — Parla con tono fatuo e indifferente; Claire ha la sensazione che lui stia pensando a tutt’altro. Una lieve irritazione per questo fatto è la prima sensazione che si accompagna al suo stordimento. Mentre camminano si divincola, liberando il braccio della sua stretta. — Che cos’ha? — chiede. — Una malattia molto rara — risponde lui senza fermarsi. Sono nell’altra stanza, ora, nella penombra sotto l’arabesco luminoso e si dirigono verso la porta d’ingresso. — Non io sapevi? — chiede con lo stesso tono indifferente. — Ero in viaggio. — Si ferma, e si volta verso di lui. — Non puoi dirmelo? Che cos’ha Dio? Ora scorge il suo viso magro, il naso e le labbra affilate, gli occhi piccoli e brillanti. — Nulla che ti possa interessare — aggiunge sbrigativamente. Aziona i comandi della porta d’ingresso e questa si apre silenziosamente. — Addio. Lei rimane immobile, e dopo un momento le porte si richiudono. — Che cos’ha? — ripete. Lui sospira e punta Io sguardo sui suo abito alla moda chiuso da un fermaglio dorato. — Come faccio a dirtelo? Il verbo «morire» significa qualcosa per te? Lei è perplessa e spaventata. — Non so… non è qualcosa che capita agli animali inferiori? Lui fa un piccolo inchino scherzoso. — Molto bene. — Ma non so di che cosa si tratti. È una specie di attacco… come… — indica con il capo la stanza interna. Lui la fissa con un’espressione a metà fra la comprensione e l’esasperazione. — Vuoi saperlo davvero? — Si volta di scatto e fa scorrere le dita lungo una striscia alla parete. — Vediamo… Non so che cosa ci sia in questo maledetto nascondiglio. Uhm. Animali. Termine. — Al tocco delle sue dita un piccolo stipo si apre e una scatoletta oblunga gli scivola sul palmo della mano, e la porge a Claire. Nelle sue mani la scatola si illumina: lei vede una gabbia in cui è accovacciato un piccolo animale… un topolino bianco. Ha il pelo opaco e ispido; intorno al suo muso c’è del liquido rappreso. Si muove incerto, annusa una scodella d’acqua e poi si allontana. Le zampe sembrano cedere; cade e rimane immobile, a parte il ritmico sollevarsi ed abbassarsi del minuscolo petto. Mentre osserva, Claire cerca di reprimere un senso di nausea. I laboratori degli studenti sono sempre pieni di orrori del genere, e loro si aspettano che nessuno provi un senso di disgusto. — Qualcosa non va nel topo — È tutto quello che riesce a dire. — Sì. Sta morendo. Questo significa cessare di vivere: fermarsi. Non essere più. Capisci? — No — sussurra lei. Nella scatoletta, il piccolo corpo ha smesso di muoversi. La bocca spalancata, le labbra sono tirate e scoprono i denti gialli. Gli occhi sono immobili e fissi nel vuoto. — Questo è tutto — dice il suo compagno, riprendendosi la scatola. — Niente più topo. Finito. Dopo un po’ comincia a decomporsi, ed emana un cattivo oaore e alla fine non restano altro che le ossa. E questo succede ad ogni topo che nasce. — Io non ti credo — dice lei. — Non è così; non ho mai udito una cosa simile. — Non hai mai avuto un animale domestico? — chiese. — Un gatto, un pappagallino, dei pesci? — Sì — risponde lei difensiva, — ho avuto gatti e uccelli. E allora? — Che cosa gli è successo? — Be’… io non lo so, suppongo di averli persi. Lo sai come si fa a perdere le cose. — Un giorno ci sono e il giorno dopo non ci sono più — dice l’uomo magro. — Giusto? — Sì, giusto. Ma perché? — Abbiamo un mondo così ordinato — dice con aria stanca. — I corpi degli animali morti sono ingombranti; ecco perché i circuiti casalinghi sono programmati per rimuoverli quando nella stanza non c’è nessuno. Senza eccezione: fa parte del programma di base. Naturalmente, se fossi rimasta nella stanza senza voltare le spalle la macchina avrebbe dovuto metterti in imbarazzo, recuperando il corpo in tua presenza. Ma questo non accade mai. Tutte le volte che vedevi che c’era qualcosa che non andava in uno dei tuoi animaletti, voltavi le spalle e te ne andavi, vero? — Be’, non riesco davvero a ricordare… — E quando ritornavi, fatto strano, la bestia non c’era più. Non si era persa, era morta. Muoiono. Tutti muoiono. Lei lo guarda, rabbrividendo. — Ma questo non capita alle persone. — No? — Stringe le labbra. Dopo un momento aggiunge: — Perché credi che avesse quell’aspetto? Lui lo sa; lo sa da cinque mesi. Lei trattiene il respiro. — Quel giorno sulla spiaggia! — Oh, tu c’eri? — Annuisce parecchie volte e riapre la porta. — Molto interessante per te. Puoi dire a tutti che l’hai visto accadere. — La spinge gentilmente nell’anticamera. — Ma io voglio… — dice lei disperata. — Che cosa? Amarlo ancora, come se fosse normale? O vuoi aiutarlo? È questo che intendi? — il viso magro è tirato, le sopracciglia aggrottate. — Credi che riusciresti a sopportarlo? Se è così… — Si sposta di lato per lasciarla rientrare. Lei fa un passo avanti, esitante. — Ricordati del topo — aggiunge lui seccamente. Lei si ferma. — Sta a te. Vuoi davvero aiutarlo? Ne avrebbe bisogno, a meno che non ti faccia un brutto effetto. Allora… dove sei stata in tutto questo tempo? — In posti diversi — risponde lei bruscamente. — Littlam, Parigi, New Hol. Lui annuisce. — Allora potresti ritornare a visitare quei luoghi. Cosa preferisci? Lei rimane immobile. Nei suoi occhi ora le due immagini si confondono; vede il viso gonfio di Dio che la fissa attraverso le rigide mascelle del topo. L’uomo magro annuisce brevemente. Fa un passo indietro, continuando a fissarla. Un lungo attimo di esitazione; poi le porte si richiudono. III Gli anni scivolano via come pagine strappate da un vecchio diario. Claire è a Stambul, Winthur, Kumoto, BahiBlanc… in altre località, troppe per ricordarle tutte. Ci sono le gare intercontinentali, che si svolgono ogni secolo sul campo barocco a forma di ruota di Campan: Claire è tra gli spettatori sospesi sulle nuvole a seguire i propri beniamini. C’è una relazione sentimentale, breve ma intensa: dura quattro o cinque anni, il nome dell’uomo è Nord e se n’è andato a Deya con un’altra donna; per circa un mese Claire è inconsolabile. Ma poi arriva la stagione operistica a Milano e poco dopo, a Tusca, incontra persone affascinanti che stanno per trascorrere un anno a Papeete… La vita è bella. Ogni mattino si sveglia ritemprata, si riempie i polmoni di quell’aria pura e frizzante, e sente il sangue formicolare fin sulla punta delle dita. In un mattino di primavera si sta crogiolando in una bolla di vetro verde, immersa per tre quarti in un oceano verde smeraldo. Le onde spumeggianti del mare si infrangono sul disco luminoso del sole in superficie. Più in basso, dove si trova lei, le verdi e gelide profondità sembrano foglie di menta addentate dal biancore accecante del sole. Minuscoli pesci piatti e dorati sciamano intorno alla bolla, si agitano, luccicando come monetine, e poi scivolano via. L’unità di memoria vicino al pavimento sta riversando in sordina un tempestoso brano di Wagner; ascoltando distrattamente, sente una musica familiare mista ad un borbottio di sillabe straniere. Il suo compagno, con la massiccia testa bronzea quasi all’altezza degli altoparlanti, ascolta attentamente. Claire prova un po’ di irritazione; lo sfiora con il piede nudo: — Ross, spegni quella cosa terribile, ti spiace? Lui alza lo sguardo, il viso ottuso ha un’espressione addolorata: — È L’oro del Reno. — Sì, lo so, ma non capisco una parola. Sembra che si stiano schiarendo la gola… grazie. Un cenno agli altoparlanti e il coro gutturale cessa. — Miliardi di persone parlavano quella lingua, una volta — dice con aria funesta. Ross è un’artista, il che fa di lui quasi un giocatore, in effetti, ma ha l’insopprimibile abitudine degli studenti di uscirsene con queste informazioni in pillole da somministrare a chi gli sta intorno. — E io non ne sopporto nemmeno quattro — ribatte lei pigramente. — Comunque, io ascolto l’opera solo per la musica, le vicende sono sempre tanto stupide. Mi domando perché. Vede quasi la risposta erudita che affiora sulle sue labbra; ma educatamente lui la reprime — sa che lei non si aspetta davvero una risposta — e ritorna ad occuparsi del visore. Al tocco delle sue dita si illumina, mostrando un abisso verde che tremola debolmente con gli ultimi bagliori del sole. — Vai giù ora? — chiede lei. — Sì, voglio prendere quei coralli. — Ross è uno scultore, non bravissimo, fortunatamente, e nemmeno molto assiduo, altrimenti sarebbe un compagno impossibile. Ha uno studio nel Mediterraneo, a dieci braccia di profondità, e trascorre parte del suo tempo a creare minacciosi grovigli di creature sottomarine stilizzate. Dopo aver usato il visore, aziona i comandi e la bolla si inabissa. Le onde si richiudono sopra di essa sollevando piccoli spruzzi. Poi il cerchio di luce passa dal giallo al verdognolo, fino ad un verde cupo. Sotto di loro c’è ora la barriera corallina, acri ed acri di lunghe dita, nude e scheletriche, variamente intrecciate. Pochi pesciolini dai colori accesi nuotano tra i rami pallidi. Di nuovo Ross prende i comandi: la bolla ondeggia e si ferma. Per un attimo guarda in basso attraverso il vetro, poi si alza per aprire il portello interno a tenuta stagna. Respirando profondamente e con espressione assorta, entra e chiude dietro di sé la porta trasparente. Claire vede l’acqua che gli sale alle caviglie. Aumenta rapidamente fino a riempire la camera stagna; quando gli arriva al petto, Ross apre il portello esterno e si tuffa in una nuvola di bollicine d’aria. È una sagoma di colore giallo che si agita nell’acqua verde; dopo qualche istante è quasi completamente offuscata da nuvole di sedimenti. Claire osserva, vagamente turbata; i coralli più grandi sembrano ossa imbiancate. Programma l’unità di memoria sui Pezzi Marini dal Peter Grimes senza sapere perché; è la musica di un freddo oceano del nord, assolutamente inappropriata. Il richiamo freddo e lontano dei gabbiani la fa rabbrividire di tristezza, ma continua ad ascoltare. Ross diventa sempre più confuso e distante nell’acqua torbida. Alla fine è solo un lampo, un movimento indistinto giù nella verde valle oscura. Dopo molto tempo lo vede ritornare, con due o tre coralli rosa tra le mani. Assorta nella musica, ha lasciato che la bolla andasse alla deriva, e il portello è ora quasi bloccato dai coralli; Ross si insinua fra di essi, facendo leva contro un gruppo di rocce, ma dopo un momento appare in difficoltà. Claire si mette ai comandi e fa retrocedere la bolla di un metro. La via è libera ora, ma Ross non si sposta. Attraverso il vetro lo vede piegarsi, lasciando cadere i coralli. Appoggia saldamente le mani e si tende, gonfiando i muscoli poderosi delle gambe e della schiena. Dopo un momento si raddrizza, scuotendo la testa. Lei si rende conto che ha un piede incastrato in una fenditura della roccia. Le rivolge una smorfia piena di dolore e si porta una mano alla gola. È fuori ormai da molto. Forse lei lo può aiutare, in quei pochi secondi che restano. Si precipita nella camera stagna e la allaga rapidamente. Ma un attimo prima che l’acqua la sommerga, vede il corpo di Ross irrigidirsi. Ora, con gli occhi aperti sott’acqua, in quella strana luce confusa, vede il suo volto gonfio contorcersi dal dolore. E in quell’istante il suo viso diviene quello di un altro, quello di Dio, sovrapposto all’immagine vivida e spettrale della smorfia di morte del topo. La visione la coglie di sorpresa e poi scompare. All’esterno della bolla, le mascelle rigide di Ross si aprono, e poi pendono inerti. Vede la pallida gelatina che affiora lentamente sulle labbra; ora galleggia leggero, con gli occhi riversi e le membra rilassate. Sconvolta, svuota la camera stagna, rientra e chiama il controllo di Antibe perché mandi una barca di salvataggio. Poi rimane in attesa, evitando accuratamente di guardare il corpo immobile. Emozioni incontrollabili la sorprendono e la spaventano al tempo stesso. Non hanno niente a che fare con Ross, e Claire lo sa: lui è assolutamente al sicuro. Quando ha cominciato a respirare acqua, il suo corpo ha reagito automaticamente: i polmoni hanno espulso la gelatina protettiva, lui ha perso conoscenza e il cuore ha cessato di battere. Il controllo di Antibe arriverà in meno di venti minuti, ma Ross potrebbe restare così anche per anni, se fosse necessario. Appena uscirà dall’acqua, i polmoni cominceranno a riassorbire la gelatina: quando saranno liberi, la respirazione e il battito cardiaco riprenderanno. È come se Ross avesse solo recitato una parte, stilizzando e dando un significato ad ogni movimento. In quel momento di dolore, nella mente di Claire una barriera è crollata ed ora vi è un’apertura. Ha un moto d’impazienza, non è abituata ad essere tiranneggiata in quel modo. Ma le braccia ricadono, inerti; la perversa attrazione esercitata da quell’apertura è troppo forte. Dio, grida silenziosa la sua mente, Dio. Il progettista del Settore Venti, nel periodo in cui lei è stata lontana, ha cambiato il disegno delle strade «per creare l’effetto di superficie». Il soffitto di ogni livello è uno schermo che riflette fedelmente la vista che si gode in superficie e, attraverso giochi di luce ed altri trucchi ingegnosi, il clima viene riprodotto anche sotto terra. Ora è una fredda e cupa giornata di novembre, segnata da una pioggia grigia e sferzante: sollevando lo sguardo si vede la distesa interminabile del cielo color piombo; e anche se l’aria è piacevolmente calda, come sempre, le grandi lastre nude delle facciate degli edifici sono diventate di un azzurro grigiastro per armonizzarsi con il paesaggio, minuscoli rivoletti argentati scorrono zigzagando verso il basso, scomparendo prima di toccare il marciapiede. A Claire non piace: non le sembra opera di Dio. La folla ha un’aria nervosa, strana, quasi risentita: guardano in alto e ridono, ma a disagio, e le aree ricreative sono piene di gente che si accalca sotto la vivida luce gialla. Claire si stringe al collo il mantello di metallo; pensa malinconicamente al mutare delle stagioni, e alla terra che diventa fredda e dura come l’acciaio, agli alberi spogli e neri contro il cielo ostile. Sottoterra, questo è il momento per cieli azzurri, corpi accaldati e risa gioiose, e non per questo grigiore opprimente. Nelle sue stanze vi è un colore vivace. È stanca e sudata per il viaggio, adesso non vuole nessuno. Ha ordinato alcuni abiti e mentre aspetta che le vengano consegnati, accende il bagno di fiamma nell’angolo della camera da letto. Si alzano improvvisamente con un boato sottili lingue di fuoco, incappucciate di nero, e poi si acquietano formando una sibilante cortina tra il giallo e il bianco. Claire si avvolge la testa in un velo isolante e senza neppure togliersi i vestiti, entra nel fuoco. Le fiamme circondano il corpo, fredde e carezzevoli: il fragile abito si incendia e scompare in un mormorio di scintille. Lei si volta allargando le braccia e pronta ad accogliere la vampata. Depilata, rinfrescata, esce dal bagno. Sente un formicolio in tutto il corpo, rinvigorito dalle fiamme. Delicatamente stacca qualche frammento di pelle bruciata: il suo nuovo corpo ha un bel colorito brillante, che lentamente assume una sfumatura rosa-avorio. Riflessi nello specchio della parete, gli occhi scintillano, le labbra sono rosse e morbide, tenere e scure come la cera scarlatta che cola da una candela accesa. Prova una sorta di indifferenza, e si lascia cullare dalla marea. Sensibile al suo umore, il soffitto argentato lascia affiorare striature color rosso sangue, che guizzano e si intrecciano, facendo scaturire barbagli di luce dallo zoccolo di bronzo e dai merletti di cristallo intagliato dei mobili. Con una improvvisa risata esultante, Claire si lascia cadere sul grande letto giallo e si rotola mentre le preziose lenzuola di seta danno una sensazione di freschezza alla pelle; poi l’esultanza scompare, il soffitto ritorna grigio, e lei si solleva a sedere con un mormorio di impazienza. Che cosa c’è che non va in lei? Cominciando già a rimpiangere il calore estivo del Mediterraneo, si avvicina alla tavola su cui giace il biglietto di Dio. È la sua risposta ai messaggi formali che lei ha inviato durante la sua assenza; dice semplicemente: IL PROGETTISTA DIO SARÀ IN CASA Dallo scivolo delle consegne proviene un suono attutito e ne escono tessuti color giallo canarino, porpora, blu notte. Claire sceglie il vestito blu, qualunque altra cosa non sarebbe in armonia con la giornata; è un abito trasparente, ma ha le maniche lunghe. E decide di indossarlo senza anelli o collane, solo con un diadema di acquemarine dalla sfumatura intensa intrecciato nei capelli. Nota appena la nuova facciata dell’edificio; ora il pozzo dell’ascensore è scuro e imbottito, con un’interminabile fila di sedili che salgono lentamente, vuoti o occupati, simili ad una sconnessa rampa di scale. L’anticamera compare lentamente ed è sorpresa di ritrovarsi in quel luogo. È rimasto lo stesso; lo stesso marmo venato d’azzurro, la stessa scultura mobile che ruota lentamente, la stessa porta ad arco. Claire esita, turbata e dispiaciuta. Cerca di convincersi che si è sbagliata: nessuno schema decorativo resta uguale per più di un anno. E invece eccolo qui, immutato, come se il tempo bizzarramente si fosse fermato in questa stanza nel momento stesso in cui l’aveva lasciata: come se lei fosse ritornata, non solo con lo stesso proposito, ma anche nello stesso istante. Con riluttanza, attraversa la stanza. La superficie scura della porta ha l’aspetto di una trappola pronta ad inghiottirla. E se lei non se ne fosse mai andata?… che cosa sarebbe successo? Qualunque fosse il segreto di Dio, ha avuto dieci anni per svilupparsi, qui, dietro questa porta immutata. Là, vi è un’oscurità che attende proprio lei. Con un brivido di repulsione quasi fisica, sale sulla pedana del videocitofono. Lo schermo si illumina. Dopo un attimo appare un volto. Non la sorprende vedere che si tratta dell’uomo magro, di quello stesso che… Lui la fissa con attenzione. Lei non riesce a scacciare dalla mente l’immagine del topo e della tenebrosa figura che lotta nel vano della porta. Dice: — Dio è… — si interrompe, non sapendo più che cosa dire. — A casa? — conclude per lei l’uomo magro. — Sì, certo. Entra. La porta scivola di iato. Mentre sta per entrare, lei esita ancora, di nuovo turbata dal fatto che anche nella prima stanza non vi sia nulla di cambiato. L’arabesco disegnato dagli schermi mostra ora una teoria di strade grigie, e quella è l’unica differenza: come se da questo luogo segreto e tranquillo, dove il tempo non ha alcun significato, lei stesse osservando un mondo remoto dove invece il tempo significa ancora qualcosa. L’uomo magro compare sulla porta, vestito di nero. — Mi chiamo Benarra — dice sorridendo. — Prego, entra; non far caso a tutto questo, ti ci abituerai. — Dov’è Dio? — Qui vicino… ma abbiamo stabilito una regola — dice l’uomo magro, — e cioè, solo agli studenti è permesso di incontrare Dio. Ti spiace? Lei lo guarda indignata. — È uno scherzo? Dio mi ha mandato un messaggio… — esita: per la verità il messaggio era piuttosto generico. — Puoi diventare uno studente con molta facilità — dice Benarra. — Puoi almeno cominciare, e per oggi sarà sufficiente. — Rimane in attesa con espressione amichevole; sembra assolutamente serio. Lei è incerta tra la resa e la meraviglia. — Io non… che cosa vuoi che faccia? — Vieni a vedere. — Attraversa la stanza, e apre una porticina. Dopo un momento lei lo segue. Viene condotta lungo uno stretto passaggio buio e lievemente inclinato. — Adesso vivo al piano di sotto — le spiega, voltandosi a guardarla, — per tenermi alla larga da Dio. — Il passaggio sbuca in un’anticamera illuminata, e di qui lui la conduce in una zona in penombra. — Qui comincia la tua istruzione — dice. Su entrambi i lati sono allineate alcune nicchie illuminate. In quella più vicina e più luminosa, si trova un curioso gruppo di esseri, né uomini né scimmie: la pelle è scura, di una lucentezza bluastra, gli occhi minuscoli scrutano verso l’alto da sotto le sopracciglia sporgenti, i capelli sono di un nero polveroso. Le membra hanno giunture nodose, simili a ramoscelli, le costole sono sporgenti, il ventre ampio e liscio. La testa del più alto le arriva ai fianchi. Dietro di loro si intravede il sole tropicale, una massa conica di quella che sembra materia vegetale essiccata, e sullo sfondo alberi e animali con le corna. — Esseri umani — dice Benarra. Lei gli rivolge uno sguardo incredulo, quasi offeso. — Oh, no! — Sì, invece. Estinti da parecchie migliaia di anni. Ecco, altri esemplari. Nella nicchia successiva, le figure hanno sempre la pelle scura, ma sono più alte, e le arrivano alle spalle. I seni delle donne sono sacche di pelle vuote che arrivano fino alla vita. Claire fa una smorfia. — Che cos’hanno? — Una diversa concezione della bellezza. Era una scelta deliberata. La donna creava se stessa. Dimmi che cosa ne pensi del prossimo. Lei perde il conto. Ci sono uomini con la pelle color rame, con la pelle bianca, oppure giallastra, alcuni seminudi, altri con abiti elaborati di metallo e stoffa. Muovendosi tra di loro, Claire si sente ingigantita, come una femmina di animale tra la sua progenie: ha un improvviso lampo di assurda e degradante tenerezza. Eppure quei visi rugosi, da gnomi, sembrano possedere una saggezza tenace ed antica che si riversa su di lei con un grido silenzioso: ultima arrivata! — Che ne è stato di loro? — Sono morti — dice Benarra. — Tutti. Ignorando il suo sguardo turbato, la porta fuori dal salone. Dietro di loro le luci si affievoliscono e scompaiono. La stanza in cui entrano è piccola e fredda, non troppo illuminata e poco arredata, solo un tavolo, una sedia e una poltrona per i visitatori, sulla quale lui la prega di accomodarsi. Il soffitto a volta, proprio sulle loro teste, è solcato da cerchi trasparenti, ognuno dei quali brilla secondo varie combinazioni di forme azzurre e rosse contro uno sfondo incolore. — È difficile accettarli, lo so — dice Benarra. — Forse tu pensi che siano dei falsi. — No. — Nessuno sarebbe stato in grado di immaginare quei visi fieri e saggi; da qualche parte, in qualche epoca, devono essere esistiti. Un nuovo pensiero la colpisce. — E i nostri antenati… com’erano? Lo sguardo di Benarra è distante e pensoso. — Claire, sarà difficile per te crederlo. Quelli erano i nostri antenati. Lei lo guarda, incredula. — Quelle… assurdità? — Sì, tutti. Tace, per un momento. — Ma hai detto che sono morti. — Infatti, sono morti. Claire, pensi che la nostra razza sia sempre stata immortale? — Perché… — s’interrompe, arrabbiata e confusa. — No, impossibile. Perché se fossimo sempre stati immortali, dove sarebbero tutti i vecchi? Al mondo non c’è nessuno che abbia, forse, più di duemila anni. Non è molto… a che cosa stai pensando? Lei alza lo sguardo, cercando di concentrarsi. — Stai dicendo che è successo. Ma come? — Non è successo. L’abbiamo fatto noi. Noi abbiamo creato noi stessi. — Appoggiandosi allo schienale, indica le trasparenze sopra di loro. — Sai che cosa sono? — No, non ho mai visto nessun disegno simile. Sarebbero dei graziosi disegni per un tessuto. Lui sorride. — Sì, suppongo che siano molto graziosi, ma non è a quello che servono. Sono delle fotografie ingrandite di minuscoli esseri viventi… troppo piccoli per poterli vedere. Entravano nel sangue della gente e la facevano morire. Quella è la peste bubbonica… — puntini azzurri e porpora alternati a dischi rosa più larghi; — quello è il tetano… — bastoncini blu e puntini rossi; — quella è la lebbra… — losanghe azzurre con puntolini più scuri ed una ombreggiatura rossa sullo sfondo. — Quella cosa che assomiglia un po’ alla coda di un pavone è un fungo parassita chiamato streptothryx actinomyces. Quello… — un delicatissimo disegno azzurro chiaro con accenti più scuri… — appartiene ad un edema maligno con cancrena gassosa. Le parole non hanno per lei alcun significato, ma le richiamano alla mente vaghe immagini ancor più spaventose, proprio perché non hanno contorni definiti. Pensa di nuovo al topo e al viso di un uomo che in qualche modo assume la stessa rigidità, quell’immobilità… congelato in uno schema luminoso, come i punti colorati sulla parete… È risoluta a non mostrare la propria repulsione. — Che cosa è successo a queste cose? — chiede con una voce che non tradisce esitazione. — Nulla. I Progettisti li hanno abbandonati, ma hanno cambiato noi. La maggior parte delle registrazioni sono andate perdute nel corso di duemila anni, e naturalmente noi non abbiamo una scienza biologica come essi la concepivano. Io non sono un biologo, sono semplicemente uno storico ed un collezionista. — Si alza in piedi. — Ma noi sappiamo di una cosa che essi fecero sicuramente, e cioè quella di rendere i nostri corpi chimicamente immuni dalle infezioni. Quelle figure… — e indica con il capo alle trasparenze sopra di loro, — ora sono irrilevanti, non possono farci del male. Esistono ancora… ho visto colture prelevate da animali vivi. Ma sono solo una curiosità. Sono state fatte anche altre scoperte per rendere la chimica del corpo più stabile, per dirla in parole povere. Elementi che avrebbero ucciso i nostri antenati a una reazione tossica, che li avrebbero cioè avvelenati, per noi sono innocui. E poi ci sono i meccanismi protettivi e i poteri parafisici che l’homo sapiens aveva solo in potenza. Levitazione, rigenerazione di organi. E infine, in generale si può affermare che il corpo era molto più omoestatizzato di quanto non fosse in precedenza, vale a dire che esiste un ciclo di funzioni che tende sempre a ritornare alla norma. Quei processi comulativi che prima danneggiavano il funzionamento, non avvengono… la matrice non si ispessisce, il fenomeno di progressiva disidratazione non ha luogo e così via. Ma tu capisci che tutti questi sono solo effetti ritardanti, fattori che impediscono a te e a me di morire prematuramente. La cosa principale… — sfiora una striscia e sulla parete compare un disegno lineare, — fu questa. Hai mai letto un diagramma, Claire? Lei scuote il capo in silenzio. Il diagramma è solo una antiestetica curva tracciata su di uno sfondo reticolare; per lei non significa nulla. — Questo è un modo schematico per rappresentare la crescita di un organismo — dice Benarra. — Guarda, questa scala dall’alto in basso è numerata in centesimi di maturità, da zero sul fondo a cento in alto. Capisci? — Sì — dice lei dubbiosa. — Ma a che serve? — Lo vedrai. Ora quest’altra scala orizzontale è numerata secondo l’età dell’organismo. Ora: questa curva che sale rapidamente rappresenta tutti gli altri organismi altamente evoluti, tranne l’uomo. Vedi, l’organismo nasce, cresce rapidamente fino a raggiungere lo sviluppo completo, e poi la curva si arrotonda, diventa quasi orizzontale. Qui declina; e qui si ferma. L’animale muore. Si interrompe per guardarla. Le parole sono sospese nell’aria; Claire non dice nulla, ma incontra il suo sguardo. — Ora questa — dice Benarra, — questa lunga curva poco accentuata rappresenta l’uomo come era un tempo. Noterai che comincia molto più a sinistra della curva degli animali. I progettisti avevano questo su cui lavorare: l’uomo era già un organismo unico, in quanto aveva questo periodo molto lungo prima di raggiungere la maturità sessuale. Ecco, guarda cosa hanno fatto. Con un gesto sovrappone un altro diagramma al primo. — Sembra praticamente identico — dice Claire. — Sì, quasi. Hanno fatto una cosa molto semplice, in linea di principio. Hanno ulteriormente allungato quel periodo giovanile, facendo in modo che la curva salisse ancora più lentamente… e non raggiungesse praticamente mai la cima. La curva diventa asintotica, cioè si avvicina alla maturità sessuale con progressive approssimazioni, ma non ci arriva mai, non importa quale sia la sua estensione. Ricambia lo sguardo di lei con aria grave. — Stai dicendo — domanda Claire, — che noi non siamo sessualmente maturi? Nessuno di noi? — Esatto — dice lui. — La maturità in ogni altro organismo complesso è il primo stadio della morte. Noi non maturiamo mai, Claire, ed è per questo che non moriamo. Noi siamo gli eterni adolescenti dell’universo. Questo è il prezzo che abbiamo pagato. — Il prezzo… — gli fa eco lei. — Ma non capisco. — Ride. — Non maturi… — Senza accorgersene raddrizza le spalle. Benarra si appoggia alla scrivania, fissandola. — Non hai mai pensato di domandarti perché ci sono così pochi bambini? Nei tempi andati, facendo l’amore senza precauzioni, una donna avrebbe potuto avere un figlio all’anno. Ora capita forse una volta su cento miliardi di incontri. È un’anomalia, uno scherzo di natura, ed anche in quei casi non è la donna a portare a termine la gravidanza. Oh, sembriamo maturi, qui sta lo scherzo… loro ci hanno modellati secondo i loro segni di onnipotenza. Si tocca la barba lucida, e si batte il petto. — Non è reale: tutti noi fingiamo di essere adulti, ma nessuno sa come sia veramente. Cade in silenzio. — Tranne Dio? — dice Claire guardandosi le mani. — È sul punto di scoprirlo. Sì. — E voi non potete fermarlo… non sapete il perché. Benarra si stringe nelle spalle. — Era sotto tensione, fisica e mentale. Qualche anello della catena si è rotto, probabilmente non sapremo mai quale. Ha già percorso un lungo tratto di quella salita… credo che ora sia vicino alla cima. Non c’è nessuna speranza di poterlo riportare indietro, ora. Lei stringe i pugni, impotente. — E allora a che cosa serve tutto questo? Gli occhi di Benarra sono velati, e gioca con un memocubo sulla scrivania. — Impariamo — risponde. — Possiamo fare qualcosa ogni tanto per confortarlo, per rendere le cose più facili. Non ci arrendiamo. Lei esita. — Quanto tempo? — Al momento non lo sappiamo. Possiamo fare delle congetture sul limite massimo, per mezzo di analogie con gli altri mammiferi. Ma con Dio possono succedere troppe altre cose. — Lancia un’occhiata alle trasparenze del soffitto. — Certo non intendi… — Le orribili forme luminose sembravano fissarla da lassù, immobili, imperscrutabili. — Sì. Sì. Ne ha già avuta una, l’ultima volta che l’hai visto… un’infezione da virus. Siamo riusciti a controllarla: era quello che i nostri antenati chiamavano «un comune raffreddore»; per loro era una cosa trascurabile, ma ha quasi distrutto Dio… voglio dire, non la malattia in sé, ma l’effetto morale. I sintomi erano sgradevoli. Non era preparato. Claire sta tremando. — Per favore. — Devi conoscere tutte queste cose — continua Benarra impietoso, — altrimenti non serve che tu veda Dio. Se ti senti sconvolta, sfogati ora. Se non riesci a sopportarlo, allora vattene adesso, non dopo. — Si interrompe, e poi continua con un tono più gentile: — Puoi vederlo oggi, naturalmente, te l’ho permesso. Non cercare di prendere una decisione ora, se ti riesce difficile. Parlagli, rimani con lui questo pomeriggio: vedi come va. Claire non si riconosce piùi. Non si è mai comportata in modo tanto sciocco nei confronti di un uomo, prima: l’amore è una bella cosa; l’amore non dura mai a lungo e tu lo sai in anticipo, ma finché dura è piacevole. L’amore è gioia, non questo dolore lacerante. Il tempo scorre come un torrente limpido e impetuoso, se solo lasci che le cose vadano per il loro verso. Lei potrebbe dimenticare Dio ora, ed essere infelice per un anno, o cinque, forse cinquanta, ma poi tutto sarebbe finito e la vita continuerebbe come al solito. Le torna alla mente il viso di Dio… non quell’estraneo, cupo ed urlante, ma Dio, stagliato contro il cielo d’argento; la luce del sole sulle sopracciglia marcate, gli occhi che brillano nell’ombra. — L’abbiamo riempito di antibiotici — dice Benarra in tono compassionevole; — non credo che corra il pericolo di prendersi qualche brutta malattia… ma invecchiare è la cosa peggiore… che cosa ne dici? IV Sotto la lastra di pietra scorrevole, Dio siede al suo banco di lavoro. La stanza è la stessa di sempre, l’unico cambiamento visibile è la statua che ora sporge da una parete, nell’angolo sopra la lastra di pietra: rappresenta un uomo con il capo reclinato, le gambe accavallate, e l’espressione pensosa. La figura è imponente, ma da essa emana una sottile sensazione di decadenza: i muscoli gonfi sembrano sul punto di afflosciarsi, il viso, anche se in ombra, ha un aspetto deforme, malsano. Lunga dodici metri, e posta di traverso nell’angolo, la statua ha un fascino primitivo, accattivante: è supremamente brutta, ma Claire è incapace di distogliere lo sguardo. Un movimento attira la sua attenzione. Dio si è alzato e la attende accanto al banco di lavoro. Lei avanza esitante: il viso della statua è in ombra, ma non quello di Dio e lei teme quello che potrà scorgervi. Lui le prende una mano fra le sue: il suo tocco è caldo e piacevole, ma sembra trasmettere qualcosa di simile ad una scossa elettrica, e la fa trasalire. — Claire… che bello vederti. Ecco, siediti, fatti guardare. — La sua voce è sonora, sicura di sé, anche un pochino arrogante. Gli occhi sono attenti e di una vivacità inquietante. Parla, si muove, e si comporta con un’aria di eccitazione repressa. Lei si sente sollevata e tuttavia, paradossalmente, un po’ allarmata: non c’è nulla di realmente cambiato nel viso di lui: la pelle è sana e luminosa, le labbra ferme. Eppure, ogni tratto, ogni fattezza di quel volto sembra nascondere qualche spiacevole sorpresa: è come guardare una maschera che può cadere all’improvviso. Nella sua eccitazione, lei ride, mormora parole senza assolutamente rendersi conto di ciò che dice. Lui si siede sull’angolo della scrivania, di fronte a lei, con un’aria di imperiosa sicurezza. — Stavo elaborando dei progetti per il prossimo anno. Ho alcune idee… qualcosa che la gente non si aspetterà mai. — Ride, abbassando lo sguardo; il banco di lavoro è coperto di piccole scatole trasparenti piene di linee ombreggiate e di colori. Gli strumenti sono sparsi in disordine, pennini, siringhe, compassi. — A proposito, cosa ne pensi di quella? — Indica dietro di sé, verso la statua. — È molto insolita… tua? — Una copia, ricavata da stereografie, l’originale era di Michelangelo, si chiamava La sera. Ma la copia l’ho fatta io. Lei solleva un sopracciglio, con aria interrogativa. — Voglio dire che non l’ho fatta con una macchina, ma con martello e scalpello, lavorando la pietra con queste mani, Claire. — Le stesse, forti e callose, che ora protende verso di lei. Claire si rende conto che erano quei cuscinetti di pelle indurita che le avevano dato quella strana sensazione di calore. Lui ride di nuovo. — È stata un’esperienza. Per prima cosa ho scoperto che cos’è la struttura della pietra. Vedi, quando una macchina fonde una statua, non esiste struttura, perché per una macchina il granito è molle come il formaggio. Ma quando scolpisci, la pietra resiste. Possiede un carattere, può essere ostinata o evasiva… può scagliarti in faccia dei frammenti, o farti scivolare di lato lo scalpello. La pietra combatte. — Stringe le mani e ride di nuovo, di quel riso strano ed esuberante. Più tardi quella sera nel suo appartamento, Claire si sente confusa e sopraffatta da emozioni contrastanti. La giornata trascorsa con Dio non è stata affatto come se l’aspettava. Neppure una volta le ha suscitato compassione: è come un uomo in cui arde una fiamma. Camminando con lei per le strade, le ha mostrato il Settore come lui lo immagina: una visione arcaica di edifici fatti per durare, non per mutare; di mattoni posati con cura, di legni intagliati e lucidati a mano. È una visione terrificante, ma lei non sa spiegarsi il perché. La gente rimane, tutto il resto passa… Nelle stanze ampie e fresche soffia una brezza leggera. Le luci si attenuano attorno al suo letto, invitandola al sonno. Claire vaga senza scopo nelle altre stanze, lasciando cadere a terra l’abito, conscia di una languida rigidezza nelle membra. La bocca è indolenzita per i baci, la sua carne ricorda il tocco di quelle mani strane. Una deliziosa stanchezza la pervade; si trova a fluttuare al culmine estatico dell’amore, senza recriminazioni e senza domande. Eppure vaga irrequieta per le stanze, evocando uno scroscio di musica e di colori dalla parete: che subito svanisce in un silenzio pieno di echi. Si ferma davanti alla porta della stanza da gioco e guarda giù, nelle oscure profondità del pozzo di caduta. La caduta è un lusso, come il bagno nell’acqua o nelle fiamme. In essa vi è la dolcezza sottile del pericolo, anche se il pericolo non è reale. Sorridendo, respira profondamente, resta immobile e poi fa un passo nel vuoto. Intorno a lei, le pareti grige scorrono veloci verso l’alto: con uno sforzo di volontà, trattiene l’impulso di forza che la terrebbe sospesa a mezz’aria. Il pavimento si avvicina precipitosamente, lo sforzo aumenta in modo intollerabile: all’ultimo istante cessa di reprimerlo e l’impulso la mantiene a galla in un breve attimo di gioia parossistica. Si ferma a pochi centimetri dalla dura pietra. Con gli occhi chiusi e l’aria sognante, lei risale lentamente verso la cima. Distende i muscoli: ora riuscirà a dormire. V Dapprima i giorni sono felici. Dio è un uomo trasformato, un demone pieno di energia. È pieno di idee e di progetti; lavora senza sosta, compie prodigi. Tutto il continente, tutto il mondo parla del Settore Venti. Dio costruisce le cose perché durino, ma poi, insoddisfatto, distrugge quello che ha costruito e ricomincia daccapo. Per una stagione tutte le strade sono sublimi intarsi di pietra, di incredibile bellezza: poi tutte le decorazioni scompaiono e gli edifici splendono della purezza delle linee classiche; le strade sono piene di luce bianca che emana dalla pietra. Claire aspetta che il ciclo subisca ancora una svolta, ma il lavoro di Dio si fa ancora più massiccio e brutale: la pietra si scurisce. Ora le strade sono strette e piene di ombre: i muri si rivestono di pesante magnificenza. Non costruisce più pozzi ascensionali: per salire negli edifici di Dio bisogna salire delle rampe o addirittura delle scale, o viaggiare in cabine chiuse. La gente mormora, ma lui continua a rappresentare una novità; vengono da tutto il pianeta per protestare, ammirare, lamentarsi: ma continuano a venire. La figura di Dio si fa più imponente, imperiosa: il mento, le guance, tutti i lineamenti si appesantiscono; la voce diventa profonda e sonora. Quando entra in un luogo pubblico, tutti si voltano: in ogni compagnia è lui ad emergere; quando esplode la sua risata, tutta la tavola ride con lui. Le donne impazziscono per lui: ubriaco e trionfante, a volte si allontana barcollando con una di loro, sotto lo sguardo di Claire. Ma lei sola conosce la sconfitta, le lacrime e le parole spezzate nelle veglie insonni della notte. C’è un intervallo in cui il tempo sembra fermarsi nel quale essi sembrano dimenticare ogni ansia ed ogni scopo, come se avessero raggiunto il punto più alto. Poi Dio comincia di nuovo a cambiare, con rapidità sempre maggiore. Sono come i passeggeri di due marciapiedi mobili che per un breve tratto hanno viaggiato affiancati, ma le cui strade cominciano ora a divergere. Claire si aggrappa a lui disperatamente, con un senso di vertigine. È terrorizzata da quel movimento inesorabile, possente, che la sta allontanando: al pari di lui, si sente trascinata verso una destinazione ignota. E all’improvviso arrivano i giorni più brutti. Dio sta cambiando sotto i suoi occhi. La pelle diventa flaccida e opaca: il naso diviene ancora più camuso. Lui dedica molto tempo all’esercizio fisico, sotto la guida di Benarra: quando cominciano a spuntare i primi capelli bianchi, lui se li tinge. Ma le rughe intorno alla bocca e agli occhi si fanno più profonde. Le ossa si deformano. Claire non riesce a sopportare la vista delle sue mani, così goffe e rigonfie; riescono a trattenere ciò che afferrano, ma paiono ugualmente annaspare. Claire è colta da crisi improvvise, e sempre più spesso scoppia in lacrime. È dimagrita, dorme male e ha perso l’appetito. Passa la maggior parte del tempo in biblioteca, studiando quei pensieri alieni che soli le permettono di rimanere in contatto con Dio. Un giorno, uscendo a prendere una boccata d’aria, incontra Katha per strada, e Katha non la riconosce. Lei si ferma, stupita, e rimane immobile accanto alla balaustra del piccolo ponte di pietra. Le facciate delle case sono come visi spenti che sembrano piangere alla luce plumbea che cade dal soffitto. Sotto di lei, sulla lunga teoria di scale, la piccola testa bruna di Katha ondeggia fra la folla e scompare. La gente sta diminuendo: in questa stagione non c’è nemmeno la metà della folla che c’era in quella precedente. Quelli che arrivano sono silenziosi ed infelici e non si fermano a lungo. Solo poche miglia più in là, nel Settore Diciannove, è tutto uno sventolio di bandiere, un pulsare di musica; le luci scintillano, la gente ride e si muove rapida. Qui, tutto è grigio. Ogni superficie è arrotondata, come levigata dal mare; qui manca una colonnina, là è caduto un mattone; qui, da una nicchia malandata, spunta una statua deforme che scruta con un malevolo viso di terracotta. Lei rabbrividisce, distoglie lo sguardo e si incammina. Un suono malinconico si leva dalla strada, riempiendo l’aria. Il silenzio palpita, poi il suono riprende. È il rintocco della grande campana, ovvero l’ultima follia di Dio, l’edificio che lui chiama «cattedrale». È un vasto luogo chiuso, privo di bellezza e di una specifica funzione. Nessuno lo usa, neppure Dio. È uno spazio vuoto in attesa di essere riempito. Ad una delle estremità, su di una piattaforma, ardono alcune candele. Il pavimento di piastrelle è sempre lucido, come se fosse stato appena lavato; le ombre si allungano sulle pareti. I visitatori odono distintamente i loro passi riecheggiare quando camminano; si sentono a disagio e se ne vanno. Senza nessuna ragione, la campana suona ad intervalli regolari. All’improvviso Claire si trova a pensare alla Baia di Napoli e ai bianchi gabbiani che si librano nel cielo: la freschezza, il forte odore dell’ozono e la luce diafana e accecante. Mentre si volta per andarsene, vede sotto di sé due figure snelle, mano nella mano: un ragazzo e una ragazza, entrambi con una massa di capelli biondi. Appaiono isolati, e la folla si muove circondandoli lentamente con una progressione di volti che mutano in continuazione. Affiora un’immagine: Claire ricorda un altro pomeriggio, la strada, allora così diversa, e i due bambini con i capelli biondi. Ora essi sono quasi adulti, ancora pochi anni e saranno come tutti gli altri. Claire prova una fitta al cuore. Pensa: se potessimo avere un bambino… Guarda verso l’alto, in una sorta di incredula meraviglia per il fatto che al mondo ci sia tanto dolore. Da dove è venuto? Come ha potuto vivere per tanti decenni senza mai conoscerlo? La luce plumbea ondeggia debolmente ma incessantemente lungo il nudo soffitto di pietra che la sovrasta. Minuscolo come una formica vista a grande distanza, Dio dondola accanto alla spalla della gigantesca statua scolpita a metà. L’eco del martello giunge fino a Claire e Benarra che sono nel vano della porta. È una figura femminile, seduta; questo è tutto ciò che ora riescono a distinguere. La testa priva di espressione, piegata verso il basso, sembra meditare: c’è qualcosa di maligno nell’informe curva della schiena e nelle robuste braccia non completamente delineate. Una nuvola di polvere avvolge la minuscola figura di Dio e il suo odore acre riempie l’aria; la polvere bianca ricopre ogni cosa. — Dio — chiama Claire nel videocitofono. Il rumore distante del martello non accenna ad interrompersi. — Dio. Dopo un momento, il rumore cessa. Lo schermo si illumina, e appare la faccia di Dio simile ad una maschera bianca. Solo negli occhi scuri c’è vita: essi ardono impazienti. I capelli, le sopracciglia e la barba sono bianche, come se lo scultore stesso fosse diventato di pietra. — Sì, che c’è? — Dio… andiamocene via per qualche settimana. Ho un tale desiderio di rivedere Napoli. Sai, sono passati molti anni. — Vai tu — risponde la faccia. In lontananza vedono la piccola figura nera piegata vicino alla spalla gigantesca che volge loro la schiena. — Io ho troppo da fare. — Un po’ di riposo ti farebbe bene — intervenne Benarra. — Te lo consiglio, Dio. — Ho troppo da fare — ripete la faccia. L’immagine scompare, il ritmo lontano del martello riprende. La figura scura è di nuovo confusa nella nuvola di polvere. Benarra scuote il capo. — Non serve. — Si voltano e si avvicinano alla balconata che si affaccia sullo scuro atrio di ingresso. Benarra dice: — Non volevo dirtelo proprio adesso. I Progettisti chiederanno a Dio di dimettersi dal suo incarico quest’anno. — Lo temevo — risponde Claire dopo un momento. — Li hai avvertiti di come lui la prenderà? — Dicono che il Settore diventerà un Luogo Evitato. Hanno ragione: la gente comincia già a sentirsi a disagio. Ancora qualche stagione e cesseranno del tutto di venire. Claire apre e chiude le mani, irrequieta. — Non potrebbero darlo a lui, per un Progetto, o un museo, magari…? — Si interrompe: Benarra scuote la testa. — Dovrà affrontarlo — dice — io l’ho previsto. — Lo so — la voce di lei è piatta, mortificata. — Io lo aiuterò… farò tutto quello che potrò. — Questo è proprio quello che non voglio che tu faccia — dice Benarra. Lei si volta, sorpresa. Lui è in piedi, rigido e con lo sguardo severo, contro la ringhiera della balconata, con l’oscuro abisso dell’atrio sotto di sé. — Claire, sei tu che lo stai trattenendo. Si tinge i capelli per te, ma gli basta solo guardarsi quando viene qui nello studio per rendersi conto di come è in realtà. Lui si disprezza… finirà con l’odiarti. Tu devi andartene ora, e lascia che faccia quello che deve. Per un attimo, lei non riesce a parlare, ha la gola indolenzita. — Che cosa deve fare? — Deve invecchiare, molto in fretta. Ha cercato di rimandarlo finché ha potuto. — Benarra si volta a guardare l’atrio deserto. In un angolo, il vecchio drappeggio di stoffa è scivolato sul pavimento. — Vai a Napoli o a Timbuk. Non chiamare, non scrivere. Ora non puoi aiutarlo. Deve farlo da solo. A Giubo acquista un anellino di ferro, molto vecchio, con la forma di un serpente che si morde la coda. È una curiosità, una cosa da studenti: nessuno lo porterebbe e poi è troppo stretto. Ma il freddo tocco di quel piccolo oggetto sul palmo della mano la fa rabbrividire al pensiero di quanto sia vecchio. Mai prima d’ora si era resa conto che l’abisso del passato avesse la forma di un imbuto. Trovarsi di fronte ad una simile estensione di tempo dà una sensazione di precarietà. Imbarcandosi a Winthur, si fa degli amici. Sulla cima del Monte Bianco, rispetto all’ultima volta c’è un nuovo rifugio, da cui si domina la valle della Dora. Nella tersa aria alpina le cime delle montagne sembrano navi che galleggiano su di un mare di nuvole. La luce del sole è pallida e trasparente: in lontananza riecheggiano le grida degli sciatori. A Cair incontra un collezionista che possiede una curiosa biblioteca, piena di frammenti e di cose strane che non si trovano comunemente. Ha una bizzarra passione per le cose antiche, alcuni dei suoi libri sono di vera carta e sono rilegati in finta pelle, copie esatte degli originali. — «Ancora, gli Alfuri di Poso, nell’isola di Celebes» — legge ad alta voce, — «ci raccontano come i primi uomini venissero riforniti di ciò di cui avevano bisogno direttamente dal cielo; il Creatore passava loro i suoi doni per mezzo di una fune. Dapprima legò alla fune un sasso e lo calò sulla terra dal cielo. Ma gli uomini non lo vollero e chiesero timidamente che cosa potessero farsene di una pietra. Il Buon Dio allora calò una banana che loro naturalmente accettarono con gratitudine e mangiarono di gusto. E questa fu la loro rovina. “Poiché avete scelto la banana” disse la divinità, “vi moltiplicherete e perirete come la banana, e i vostri discendenti prenderanno il vostro posto…”» — Lei chiude il libro. — Che cos’era una banana, Alf? — Un simbolo fallico, mia cara — risponde lui, accarezzandosi la barba con un sorriso. A Prah si unisce per un breve periodo ad un allegro gruppo di atleti, giocando a seguite-il-capo; sono andati in volo planato da Omsk al Baltico; sono scesi in toboga sullo scivolo del Rose Club da Danz a Warsz, ed hanno proseguito in bicicletta fino a Bucur; sono andati in pallone, si sono lanciati da precipizi, hanno corso a piedi nudi per tutta la notte. Poi li accompagna in montagna; passano la notte in un rifugio, cantando, ed il mattino dopo ripartono, come uno stormo di rondini. Claire è silenziosa, ed ha un’espressione molto seria; l’orda di giovani le passa accanto di corsa, volti allegri, lampi di calore, risa, grida. — Claire, non vieni?… Claire, che cosa c’è?… Claire, vieni con noi, andiamo a Linz a nuoto! — Ma lei non risponde. L’allegra compagnia se ne va in silenzio. Sul tetto del mondo, la fitta coltre di nubi si sposta con rapidità, bianca contro l’azzurro intenso del cielo. Si muove verso nord; un vento pungente soffia tra i pini, portando un odore di fiordi gelati. Claire rientra nella sala comune, ormai vuota, del rifugio. I suoi movimenti sono lenti: è stanca di fuggire. Per cinque anni non è mai rimasta nello stesso luogo per più di qualche settimana. Non ha mai guardato un notiziario, non ha mai cercato di mettersi in contatto con i suoi conoscenti nel Settore Venti. Deliberatamente, ha persino evitato di registrare i suoi spostamenti; farsi registrare significa aspettare una chiamata, ed aspettarla significa essere molto vicini a farne una. Ma a che serve? Dovunque vada, porta con sé la stessa tristezza. L’indice telefonico si illumina al suo tocco. Lentamente, con dita ormai disabituate, sceglie il settore, il gruppo e il nome: quello di Dio. Lo schermo pulsa: c’è una lunga attesa. Poi il viso grigio di un autosegretario la informa educatamente: — Il nominativo ha traslocato senza lasciare ulteriori informazioni. Claire si sente la gola secca. — Quanto tempo fa è cessata la sua registrazione? — Un momento, prego. — Il viso inespressivo tace. — L’ultima registrazione risale a tre anni fa, il trenta novembre. — Prova al registro centrale — dice Claire. — Non è stata registrata nessuna ulteriore informazione. — Lo so. Prova ugualmente. Prova dappertutto. — Ci sarà un ritardo per il controllo. — Il volto senza espressione resta muto per un tempo molto lungo. Claire volta il capo, fissando l’arabesco di colori che si muovono lungo i bordi della stanza. — Attenzione, per favore. Si volta. — Sì? — Il nominativo non compare in alcun registro di settore. Per un momento resta intontita e incapace di parlare. Poi con un gesto congeda l’autosegretario e consulta di nuovo l’indice: lo stesso settore, lo stesso gruppo; il nome: Benarra. Lo schermo si illumina: quel viso che lei ben ricorda è ora davanti a lei. — Claire! Dove sei? — A Cheky. Ben, ho cercato di chiamare Dio, e mi hanno detto che non era registrato. È forse…? — No, è ancora vivo, Claire; si è ritirato. Voglio che tu torni qui più presto che vuoi. Prendi uno speciale, la mia associazione pagherà l’extra, se ti trovi a corto. — No, ho un surplus. Va bene, arrivo. — Questo l’ha fatto la stagione dopo che te ne sei andata — dice Benarra. Lo schermo a parete si accende: è un’immagine stereo della piazza principale del livello Tre, la sezione del Centro: edifici scuri, privi di decorazioni, come un canyon di rocce. Le strade sono deserte, nessun viso spunta alle finestre. — Il Giorno del Cambiamento — dice Benarra. — Dio aveva formalmente dato le dimissioni, ma aveva ancora un giorno. Guarda. Sullo schermo, una delle facciate degli alti edifici all’improvviso ondeggia e si sbriciola sulla cima. Si solleva una cortina di fumo nerastro. Come una pila di gettoni, l’edificio si inclina verso la strada, e si scinde nei mattoni e nelle pietre che lo compongono. Il rombo giunge attenuato alle loro orecchie, mentre anche un altro edificio esplode, e poi un altro ancora. — L’ha fatto da solo — dice Benarra. — Ha piazzato lui stesso le cariche esplosive, senza dirlo a nessuno. Il consiglio era inorridito. Gli integratori non erano progettati per disfarsi di tutti quei detriti… hanno dovuto essere amorfizzati e pompati all’esterno. Hanno pregato Dio di smettere, e alla fine l’ha fatto. Però ha chiesto in cambio il Livello Uno. — L’intero livello? — Sì, gliel’hanno dato. Lui ha fatto notare che non sarebbe stato per molto. Tutte le aree ricreative e così via, lassù, dovevano comunque essere cambiate; il successore di Dio si è limitato a cancellarle dall’integratore. Ancora lei non capisce. — Senza lasciare altro che la nuda terra? — Lui voleva così. Ha preso dei semi dai collezionisti e li ha piantati. Sono andato su molto spesso. Lui coltiva davvero il grano e lo macina per fare il pane. Sullo schermo, il canyon di strade è diventato un lago di polvere. Benarra sfiora un pulsante: la scena cambia. Il cielo è di un azzurro luminoso: la terra del livello è nuda. Si scorge un unico piccolo edificio, rigido e spoglio; dietro di esso vi sono alcuni alberi e la luce del tramonto risplende sui campi divisi in filari paralleli. Una figura scura è in piedi immobile a fianco della casa: dapprima Claire non la riconosce come un essere umano. Poi questa si muove, volta il capo. Lei sussurra: — Quello è Dio? — Sì. Claire non sa reprimere un gemito di dolore. La figura è troppo piccola per poter distinguere i particolari del corpo, ma qualcosa nelle sue proporzioni le riporta alla mente una delle grottesche statue di Dio, ossute, e assurdamente ingobbite e contratte. La figura si volge e si incammina con passo rigido verso la capanna. Entra e scompare. Si rivolge a Benarra: — Perché non me l’hai detto? — Non hai lasciato messaggi, non sapevo come raggiungerti. — Lo so, ma avresti dovuto dirmelo; io non sapevo… — Claire, che cosa provi per lui, ora? Amore? — Non so. Una grande compassione, credo. Ma forse nella compassione c’è anche dell’amore. Ho pietà di lui perché una volta l’ho amato. Ma credo che tanta pietà sia amore, vero, Ben? — Non quel tipo di amore che tu ed io conoscevamo — dice Benarra tenendo gli occhi sullo schermo. Lui la stava aspettando quando lei uscì dalla cabina. Il suo viso non aveva nulla di umano. Era come il viso di una tartaruga o di una lucertola: calloso e terreo, con gli occhi brillanti che scrutavano da sotto le sopracciglia sporgenti. Le guance erano incavate, il naso sporgente e le labbra rigonfie sui denti ossuti. I capelli erano bianchi e radi, come lanugine illuminata dal sole. Insieme erano come estranei, o come visitatori provenienti da pianeti diversi. Lui le mostrò i suoi campi di grano, il pollaio, i nuovi alberi da frutta. Tra i rami svolazzavano e cinguettavano gli uccelli. Dio indossava un abito di rozza fattura che gli pendeva goffamente dalle spalle magre. L’aveva fatto lui, le disse; e aveva fatto anche la brocca di coccio da cui le versò un vino aspro e limpido, fatto con la sua uva. L’interno della capanna era spoglio e lindo. — Naturalmente, Ben mi fornisce provviste di cibo e altre cose come aghi e filo. Non posso fare tutto, ma nel complesso, non me la sono cavata troppo male. — La sua voce era distante; sembrava solo parzialmente conscio della presenza di Claire. Sedettero fianco a fianco sulla panca di legno all’esterno della capanna. La luce pomeridiana indugiava sulle beole; quel viso imbiancato si animò, e per la prima volta lei fu in grado di scorgere in quella faccia i lineamenti di Dio. — Non dico di non essere amareggiato. Tu ricordi come ero e vedi come sono adesso. — I suoi occhi si fecero meditabondi, le labbra fremettero. — Qualche volta penso: ma perché è toccata proprio a me? Tutti voi continuerete ad andare avanti, come bambini ad una festa, ed io non ci sarò più. Ma ho scoperto una cosa, Claire. Non so se posso dirtela. Si interruppe e volse lo sguardo verso i campi. — C’è in questo una sorta di attrazione, di bellezza. Sembra impossibile, ma è vero. Bellezza in ciò che è brutto. È simmetrico, ha un ritmo. Il sole sorge, il sole tramonta. Vivendo quassù lo senti di più. Forse è per questo che siamo andati sottoterra. Si voltò a guardarla. — No, non riesco a farti comprendere. E neppure voglio che tu pensi che ho deciso di arrendermi. A volte, nel mezzo della notte, la sento arrivare. Qualcosa che sale all’orizzonte. Qualcosa… — fece un gesto. — Una sensazione. Qualcosa di enorme e freddo. Molto freddo. E allora mi siedo sul letto e grido «Non sono ancora pronto». No, non voglio andarmene. Forse, se fossi cresciuto dovendomi abituare all’idea, ora sarebbe più facile. È un grosso cambiamento che devi operare nel modo di pensare. Ci ho provato… tutto questo… e le sculture, ti ricordi, ma non ci sono riuscito. Eppure, ora… la cosa strana è questa. Non tornerei indietro. Capisci, voglio essere me stesso; sì, voglio continuare ad essere me stesso. Quegli altri uomini non erano me, soltanto qualcuno sulla strada per diventare me. Tornarono insieme alla cabina. Sulla porta, lei si voltò per guardarlo un’ultima volta. Lui era in piedi, curvo ma risoluto, con i suoi stracci e i suoi capelli bianchi, stagliato contro una striscia di cielo viola. La luce morente brillava grigia sui campi; più lontano nel boschetto di alberi, le voci degli uccelli tacevano. Una stella solitaria brillava ad est. All’improvviso si rese conto che lasciarlo sarebbe stato intollerabile. Uscì dalla cabina e lo abbracciò: il suo corpo era incredibilmente magro e fragile nelle sue braccia. — Dio, non dobbiamo separarci, ora. Lascia che io venga a stare nella tua capanna: restiamo insieme. Gentilmente, lui si sciolse dall’abbraccio e fece un passo indietro. I suoi occhi brillavano nella luce del crepuscolo. — No, no — disse. — Non andrebbe bene, Claire. Tesoro, io ti amo per averlo detto, ma vedi… vedi, tu sei una dea. Una dea immortale… e io sono un uomo. Lei vide le labbra che si muovevano, come se stesse per parlare ancora e attese, ma lui si voltò senza un gesto o una parola e si incamminò sulla terra spoglia: una figura scura, lunga e sottile, con gli indumenti che sbattevano dolcemente alla brezza che spirava sulla terra. L’ultima luce brillava debolmente fra i suoi capelli bianchi. Poi fu solo un punto in lontananza. Claire rientrò nella cabina e la porta si richiuse. VI Per molto tempo non riesce a convincersi che lui se ne sia andato. Ne ha visto il corpo disteso in una cassa, simile ad una statua di cera dipinta: non è Dio, Dio è in qualche altro luogo. Si sorprende a pensare: Quando Dio tornerà… come se lui fosse soltanto partito per l’altro capo del mondo. Ma sa che c’è un tumulo di terra sopra il Settore Venti, sormontato da un’alta pietra levigata, che indica il luogo in cui il corpo di Dio giace sotto terra. Può ripetere a memoria le parole che vi sono scolpite: Deboli ed esigui sono i poteri delle membra degli uomini: molti sono i dolori che li affliggono e smussano gli orli del pensiero: breve è la misura della vita fino alla morte, attraverso la quale essi si affannano. E poi se ne vanno, come fumo svaniscono nell’aria: e quello che sognano di sapere non è altro che quel poco in cui ciascuno è inciampato nel suo girovagare per il mondo. Eppure tutti loro si vantano di aver imparato tutto ciò che c’è da sapere. Vani stolti! Perché quello che c’è, nessun occhio l’ha mai visto, nessun orecchio l’ha mai udito, né nessuna mente umana potrà mai concepirlo.      Empedocle      (5° secolo a.C.) Un giorno, Claire chiude l’appartamento e lascia che il Progettista, il successore di Dio, ne faccia quello che vuole. Lascia tutti i suoi appunti, tutto il suo equipaggiamento da studente, ormai inutile. Va in un albergo, e nel pomeriggio le vengono portati i nuovi abiti: tessuti di seta color fiamma e maglia metallica: nuovi profumi, nuovi gioielli. Nelle unità di memoria c’è musica nuova e lei danza incerta, con il capo piegato di lato per ascoltare, lasciandosi sommergere dai ritmo. Ormai è come una primavera a lungo rimandata, le oscure memorie appassite stanno scivolando nel passato e il presente è fresco e gaio. Prova a chiamare qualcuno dei vecchi amici. Katha è a Centrarci, Ebert è al sud, Piet e Tanno non sono registrati. Non importa, nella piazza davanti all’albergo, prima che il giorno sia finito, lei si fa una dozzina di nuovi amici. Il gruppo aumenta; poi tutta la compagnia si sposta dalla piazza ai giardini del Vermilion Club e lì passa da una stanza all’altra dei vari soci e poi, alla fine, all’appartamento di Claire. Lasciando il gruppo intorno alla mezzanotte, lei vaga da sola per l’appartamento, rilassata dalla compagnia, felice di udire i canti che si fanno confusi e svaniscono alle sue spalle. Nella stanza da gioco si ferma pigramente a guardare le oscure profondità del pozzo di caduta. Che meraviglia, pensa, cadere e cadere, senza toccare mai il fondo… Ma il fondo, naturalmente, è sempre là, o questo non sarebbe un pozzo di caduta. Un paradosso: il pozzo è come un camino che ha un fondo; è la sensazione di pericolo, l’immaginare di sfracellarsi che suscita il brivido. Ma non c’è pericolo di farsi male: la levitazione e l’istinto di sopravvivenza lo impediranno comunque. Abbiamo un mondo così ordinato… Le cose passano, la gente resta. E allora dov’è Piet, l’uomo con la testa lanuginosa, con le sue risa e i suoi scherzi? Nascosto magari dall’altra parte del mondo, senza curarsi di farsi registrare. Capita spesso, nessuno ci pensa. Ma allora, chiede implacabile la sua mente, dov’è la donna di nome Maria, che ti teneva sulle ginocchia quando eri piccola? Dov’è Hendry, tuo padre, che hai visto per l’ultima volta… quando? Cinque, seicento anni fa, quella volta a Rio. Dove va la gente quando scompare… la gente di cui nessuno parla? Dal corridoio buio il canto giunge fino a lei. Claire fissa trasognata le ombre del pozzo. Pensa a Dio, guardando l’oscurità che si avvicina: «A volte lo sento arrivare, salire all’orizzonte. Qualcosa di enorme e freddo». Nella sua immaginazione l’oscurità si trasforma in un viso grigio, bellissimo e terribile. Le labbra sorridenti sussurrano, per lei sola: Un giorno o l’altro.